Orler si racconta

Archivio Davide Orler

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Orler si racconta

Nel febbraio del 2011, a due mesi dalla scomparsa di Davide Orler, avvenuta il 7 dicembre del 2010, viene pubblicato il suo libro autobiografico dal titolo Al tramonto quando il cielo s’infuoca, mutuato da quello delle ultime mostre tenutesi nella “sua” valle di Primiero. Al testo, scritto in collaborazione con il giornalista Alessandro Borelli, l’artista aveva dedicato lo scorcio finale della sua vita: già segnato dalla sofferenza, aveva profuso però grande impegno nel lavoro di raccolta e stesura della sua testimonianza con spirito sereno e senza infingimenti. Di seguito vengono proposti alcuni passi tratti dal volume in cui Davide Orler pone l’accento su aspetti peculiari della sua esperienza umana ed artistica.
di Davide Orler *

Il sogno, sin dalla più tenera età, si chiamava Venezia. Credo che abbia cominciato a prendere forma, con un certo grado di consapevolezza, intorno ai 10-12 anni. Mezzano era il mio paese, lì c’era tutto ciò che, allora, rappresentava l’universo in cui vivevo ma presto mi dovetti rendere conto che rimanervi avrebbe significato una sola cosa: continuare, per il resto della vita, con i lavori di montagna. Io, invece, avevo addosso una vera febbre che mi portava a immaginare, a guardare oltre nell’anelito costante di realizzare qualcos’altro; vivevo un’inquietudine che mi perseguitava e che mi sarebbe stato impossibile non appagare (…). Nel 1946, appena quindicenne, decisi di rompere gli indugi. Quando ripenso a quei giorni mi commuovo ancora: nonostante fosse inverno e avessi pochi spiccioli in tasca, senza alcuna persona su cui fare affidamento, decisi di fuggire per vedere finalmente la città dei miei sogni, la città di cui tanto avevo sentito parlare da amici e conoscenti – Riccardo Schweizer in testa – ma anche da poeti e pittori innamorati, come dovevo esserlo io, dell’arte e della cultura che Venezia emanava. In quel momento e in quel modo la mia era una vera pazzia, ma sentivo che dovevo farlo e partii ugualmente. Si trattava del mio primo, vero gesto di ribellione. L’avevo covato dentro da tempo, non mi ero confidato con nessuno. Mi dicevo solo: “Devo andare a Venezia perché devo vedere e voglio capire”. Una volta arrivatovi alloggiai, per alcune notti, da conoscenti di mio cugino; poi, però, dovetti cominciare ad arrangiarmi. Dopo appena una settimana non mi restavano che i soldi per il biglietto del treno di ritorno. Le ultime notti – ben ricordo – le passai sulle gelide panchine sotto i portici di Palazzo Ducale o, solo e indisturbato, nel pontile dei Giardini dove, dopo una certa ora, il vaporetto non faceva più fermata. Dentro avevo trovato un angolo dove non passava il vento e lì mi mettevo a dormire. Naturalmente era una situazione che non poteva durare. Alla fine, dunque, dovetti tornare a casa senza, ovviamente, poter dire che la colpa era stata della mancanza di soldi. I miei genitori, forse, se ne resero comunque conto, ma non mi chiesero mai nulla.

A distanza di tanto tempo, tuttavia, quell’avventura è ancora dentro di me come una svolta decisiva: avevo perso quella sfida ma avevo guadagnato una seconda patria. Sapevo che un giorno Venezia sarebbe stata la mia città per sempre (pagg. 31-34).
A La Spezia stava per iniziare una delle fasi più importanti della mia vita, su cui mi devo soffermare perché è da lì che ha preso avvio una sorta di rigenerazione personale determinante per me stesso e per la mia pittura successiva. Come ho detto, nei confronti dell’educazione religiosa che avevo ricevuto a Mezzano era cresciuta presto in me una progressiva ribellione interiore che mi aveva portato a un precoce allontanamento dai precetti e dalle pratiche di fede. Contestualmente, con gli anni, si era accentuato nel mio intimo un sentimento che definirei di gnosticismo e panteismo esistenziale. Non è facile dire con parole semplici di cosa si trattasse: il connotato essenziale era però l’abissale distanza con ciò che mi era stato insegnato quand’ero bambino (…). Fu a La Spezia che mi resi gradualmente conto dei terribili rischi connaturati nel mio panteismo: quella strada, infatti, non conduceva ad altro che alla disperazione interiore. Se, infatti, si ritiene che la materia è solo e nient’altro che materia, lo spirito, in pratica, si pietrifica e inaridisce e non vede nulla a parte ciò che gli sta di fronte. Così non nutre più alcuna speranza in “qualcos’altro” che stia oltre la materia stessa, con la conseguenza che è l’intera vita a perdere di senso e di significato. Quando aprii gli occhi e mi resi conto di questa verità, che fino a quel momento la mia mente, come velata, non aveva voluto vedere, divampò nel mio animo una crisi spaventosa; fu un travaglio che mi afflisse con indicibili tribolazioni. Non so immaginare quale sarebbe potuto essere lo sbocco se, alla fine, non si fosse compiuta dentro di me una stupefacente rivoluzione, che è giusto ormai chiamare conversione, la quale mi trasse distante dall’orlo del baratro verso il quale mi ero incamminato. (pp. 42-43)

La camera – studio a Contesse, Messima 1955

Iniziò un percorso nuovo, radicato, convinto, mentre i vecchi precetti panteistici erano diventati come insipidi, il loro fascino si era dissolto nel nulla. Anche la mia arte ricevette quell’influsso vivificante. Rinacque la predilezione per i temi religiosi che avrei poi visto, vissuto e sperimentato nell’arco di una vita attraverso le forme e i materiali più disparati: dalla tela al disegno su tessuto, dalle ceramiche alla scultura in ferro. Divenne piena in me la consapevolezza che il filone religioso, ormai abbandonato perché considerato retaggio del passato, avrebbe potuto rappresentare il riscatto dell’arte moderna vista da molti, purtroppo, come mero esperimento creativo, gioco d’assurdi e di stravaganze ritenuti dai più inconciliabili con la spiritualità dei temi cristiani. Tempo dopo avrei fatto mie le parole scritte da papa Paolo VI nel suo Discorso agli artisti del 7 maggio 1964: “Non è possibile che l’arte moderna non possa servire all’arte sacra!”. A ben vedere, in tale frase c’è tutta l’essenza del mio pensiero su questo argomento, cruciale e delicatissimo insieme. La domanda infatti è: come mai l’arte moderna si è spinta avanti da sola, senza punti di riferimento, mentre la storia ci insegna che per duemila anni, dalle catacombe in poi, il tema religioso ha impregnato di sé praticamente tutta la storia artistica? Non bisogna avere studiato tanto, infatti, per sapere che gli artisti di ogni tempo hanno sempre lavorato in maniera quasi esclusiva in ambito ecclesiastico e che per molti secoli non ci sono state opere degne di tal nome se non connotate dal tema religioso. Ciò vale anche oggi, con un motivo di consapevolezza in più: per l’uomo moderno dev’essere proprio l’arte moderna a farsi carico della responsabilità di far avvicinare, e se possibile comprendere, i misteri della Rivelazione cristiana. Ci si potrà, entro certi limiti, anche spingere oltre il figurativo, ma senza cedere a certe esasperazioni alle quali da molto tempo siamo costretti ad assistere. Simili convinzioni spiegano anche perché il mio itinerario successivo sia stato in pratica totalmente impostato sull’arte figurativa: l’astrattismo, infatti, non mi ha mai coinvolto, anche se in certi momenti l’ho frequentato parecchio; l’ho sempre considerato, più che altro, un filone decorativo capace di procurare, tutt’al più, qualche momento di distrazione, quasi per scaricarmi dalla tensione accumulata nella fatica dell’introspezione rispetto ai temi che mi stanno davvero a cuore. Questo non significa che io abbia voluto, nel lungo arco della mia esperienza, rinnegare la modernità: riaffermo, tuttavia, con forza la convinzione che essa debba, anche in forme nuove, esprimere quel vigore e quell’intensità che sono proprie di chi ha qualcosa da comunicare. (pp. 42-44)

Sono gli esiti di quella che allora sembrava una rivoluzione irreversibile a dimostrare che, dopo secoli di figurativo, non si può sbattere in faccia all’uomo l’astratto puro, al limite dell’invenzione cerebrale. Certo, ha ragione chi sostiene, al tempo stesso, che oggi certi linguaggi del passato non possono più essere utilizzati: è vero, ma superarli non vuol dire abiurarli e neppure dimenticarli o, peggio ancora, disprezzarli. Insisto: diamo all’uomo una poetica moderna, che gli tocchi il cuore e appaghi il suo bisogno di poesia e di sogno (ma cos’altro è la poesia se non un bellissimo sogno?) e non continuiamo a privarci della straordinaria emozione che procura la visione di un albero, di un prato verde, della neve o del cielo. L’arte non è finita, ma con il taglio per il taglio, la cornice per la cornice o lo spazio per lo spazio non si riesce ad andare avanti. Valori di un certo tipo non possono essere comunicati attraverso un buco o uno squarcio sulla tela (…). Arriverà il momento – ammesso che non sia già quello nel quale stiamo vivendo – in cui ci accorgeremo di avere tra le mani solo un pugno di mosche. Oggi mi interessa dire che l’arte non può morire: finché ci sarà l’uomo, ci sarà anche l’arte perché quando questa finisse, o si riducesse soltanto a qualcosa d’inguardabile, allora sarebbe finito l’uomo. E sarebbe finito l’uomo in quanto dovremmo prendere atto che si sarebbe disseccato lo spirito, primo motore di ogni artista. Personalmente, sono convinto invece che lo spirito debba dare i frutti migliori soprattutto nell’ultima parte della vita di un autore, quando si arriva al dunque, alla summa dei valori. Guai se ci si lascia morire dentro. E’ la trappola in cui, sfortunatamente, sono incappati diversi artisti del Novecento, giunti all’approdo della vita allo stremo della loro arte perché allo stremo della loro esistenza, ubriacati da cose vane e inutili. (pp. 73-74)

* Davide Orler, Al tramonto quando il cielo s’infuoca, C&M Arte, Arezzo, 2011.

A Venezia – Palazzo Carminati- con Riccardo Schweizer 1958

Nel 1958, durante la mia esposizione all’Hotel Dolomiti di San Martino di Castrozza, venne in visita uno dei componenti della commissione dei critici del museo di Antibes, una delle più belle località della Costa Azzurra, in Francia, che poteva vantare un luogo espositivo all’avanguardia in Europa nel campo dell’arte moderna, divenuto in breve tempo famoso per le sue bellissime sale dedicate a Picasso. Casualmente, mescolato tra i visitatori, quel personaggio si fermò ad osservare i miei quadri e ne rimase entusiasta. Nel giro di poco tempo mi presentò a Dor de La Souchére, noto critico d’arte francese e conservatore del museo. Fu lui a propormi di fare qualcosa là, l’anno successivo, ovvero nel 1959. Prima di me, ad Antibes, c’era stato soltanto un altro italiano: Bruno Cassinari, nel 1950 (…). Ricordo quei tre mesi, da maggio a luglio, come i più intensi e turbinosi della mia vita d’artista. Per la prima volta vedevo, davvero, il mondo. E in quell’ambiente effervescente c’era il lievito di un’intera epoca. All’inaugurazione intervennero nomi di primo piano dell’arte e della cultura del tempo come Jean Cocteau, Paul Eluard e Jacques Prevert insieme a un folto pubblico mondano di amanti dell’arte d’avanguardia, di pittori, poeti e ricchi industriali, tutti in vacanza in quell’angolo di Francia ma comunque ansiosi di vivere fin dentro le proprie fibre la temperie che animava quel periodo. Anche i grandi maestri, considerati già allora come una specie di “semidei” intoccabili, guardati dal mondo con un misto di rispetto, soggezione e devozione, abitavano in quelle zone: il grande Picasso nella sua magnifica villa “La Californie” e Marc Chagall a Saint Paul de Vence, ancor oggi un luogo in cui l’arte si respira in ogni mattone e in ogni pietra, vicino alla famosa cappella di Matisse. Rammentando tutto questo comprendo come possa sembrare assurdo che di questi incontri io non abbia neppure una fotografia: anche i miei figli me lo hanno rimproverato spesso. Ma già allora ero fatto così: le luci della ribalta m’interessavano solo nella misura in cui arricchivano il mio bagaglio di conoscenze e di sollecitazioni culturali: non ero nato per le vetrine. (pp. 52-54)

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