Orler e il sacro

Archivio Davide Orler

Nel 2003, in occasione della grande retrospettiva Davide Orler 1949-2000 tenutasi a Palazzo Bonaguro di Bassano del Grappa (Vicenza), Renato Laffranchi, sacerdote e amico dell’artista, redasse un contributo critico dedicato alle cento opere del ciclo La Bibbia di Davide Orler in parte esposte all’interno di quel percorso. Benché incentrata su un tema sacro, quello biblico, che ha contrassegnato, nell’imponenza dello sforzo artistico, l’ultima parte dell’attività del pittore, la riflessione compendia, con efficacia e cura minuziose, il senso e il significato dell’intero cammino compiuto da Orler sui sentieri del sacro, già a partire dalla seconda parte degli anni Cinquanta, che egli riteneva il “cuore pulsante” della sua arte. Il testo integrale della riflessione – dal titolo I quadri biblici di Davide Orler – viene proposto di seguito come bussola per orientarsi nelle profondità della meditazione e della ricerca dell’artista.
di Renato Laffranchi*

Pare che il grande Rouault negli ultimi anni di vita si mettesse sulla porta delle gallerie dove esponeva i suoi quadri domandando ai visitatori se fossero o no credenti; e a quelli che non lo erano dicesse che non era il caso che entrassero. Il mio amico Davide, che mi ha raccontato la cosa, credo abbia la tentazione di fare lo stesso. E forse non avrebbe poi tutti i torti. Le sue ultime opere, quelle bibliche nelle quali egli vede – e vedo anch’io – il termine e il frutto di tutta la sua ricerca e la sua fatica di uomo e di pittore, sono di quelle che si sottraggono a una attenzione che cerchi puri valori formali, diciamo artistici, perché propongono suggestioni spirituali pienamente avvertibili solo se la mente ha conoscenza e memoria delle cose di Dio, se il cuore è capace di riconoscere nelle immagini suggerite i personaggi, gli eventi e le storie che raccontano i Libri di Dio.

Quando lo conobbi, molti anni fa, fui affascinato, e anche un po’ sconcertato, dalla sua figura di grosso vichingo, dalla irruenza di una passione che si incorporava coraggiosamente in opere dalla consistenza materia quasi brutale, nelle quali l’indignazione davanti alle ingiustizie e la compassione alle sofferenze degli uomini, alle tragedie, alle pene dei poveri, si trasformavano in gagliardi canti d’amore quando dipingeva la severa bellezza delle sue montagne e in una sollecitudine di protezione quando dipingendo le case degli umili applicava addirittura delle tegole di assi sulle tele, quasi a rinforzarne i tetti, come farebbe un gigante buono. Ci perdemmo per anni, così non lo seguii per le molte strade tentate dalle sue diverse esperienze. Lo ritrovai andando ogni tanto a vedere le sue icone, incantato e frastornato come un Lazzaro affamato a un banchetto di un re. Non meno forte e fedele a se stesso lo ritrovai, ma come rassicurato e addolcito da una consapevolezza piena di luce, esperto del Mistero, convinto di Dio, edotto dalle Sante Parole. Così quando gli portavo gli amici dicevo loro che li portavo ad incontrare un profeta. Ma non sapevo in quale fatica si stava spendendo con la sua strenua dedizione di un posseduto; non avevo visto queste opere nate dalla Bibbia e dedicate alla Bibbia che recentemente mi sono venute addosso improvvise nel suo studio pieno di tele, di lampi, di apparizioni – così nuove, così numerose, così convincenti da darmi la sorpresa, la certezza e l’emozione di una nuova esperienza dello spirito.

Testa di Cristo, Olio su panforte, 51,5 x 42 cm, 1964

Testa rossa, tecnica mista su carta, 34,5 x 38 cm, 1969

Perché il vichingo è davvero diventato un profeta. E solo chi conosce la Bibbia e la prende sul serio (ecco Rouault su quella porta) può capire che cosa intendo, e pensare con me a quegli uomini ostinati, difficili, fiammeggianti, severi, violenti a volte – se Eliseo faceva mangiare dei monelli dall’orsa – e insieme dolcissimi. Uomini fissati sulla Parola, che non si curavano d’altro che della Parola e non avevano altro da dare agli uomini che la Parola. Poiché così Davide è diventato. E credo anche di sapere come la trasfigurazione è avvenuta, quale cammino ha portato questo pittore, quest’uomo, a questa nuova assolutezza, a questa riduzione ad unum delle sue visioni, a questo modo di dipingere così noncurante di quel che di solito preoccupa i pittori, qual è la sorgente della luce che vedo nei suoi occhi affaticati. Egli ha vissuto una avventura singolare, che io gli invidio: la sua lunga immersione nello spirito di quell’arte che chiamiamo bizantina e che dovremmo chiamare semplicemente cristiana. Dico immersione ma dovrei dire sprofondamento, perché è stato per lui come un perdersi, come un trovarsi fuori strada, come un perdere la ragione: come è di tutte le esperienze radicali dell’anima. Poiché quel suo innamoramento avventato, totalitario per le icone bizantine aveva davvero della follia, come sono folli le avventure di coloro che si lasciano soffiare via dallo Spirito. Era il suo rischio, fu la sua passione e il suo dono.

Guardandole, quelle icone, e riguardandole, adattando poco a poco il suo cuore a quel loro fascino un po’ sconcertante, imparando a venerarne la grazia segreta, lasciandosi illuminare e poi accendere da quel chiarore modesto, ascoltandone le parole silenziose – facendo di quell’inverosimile reame la sua dimora – diventato capace di vederle per quello che esse sono: non oggetti di un’arte singolare fra le molte arti dell’uomo, ma “segni” quasi sacramentali della Verità. Della verità del divino e della verità dell’uomo e della storia, delle cose e della natura.
Come maestre del dipingere e prima ancora del sentire. Come testimonianze discrete e convincenti della Presenza. Imparato questo – e Dio volesse che tanti artisti e tanti uomini d’oggi avessero almeno il sospetto di queste possibili esperienze dell’anima – non poteva Davide non dipingere come ora dipinge. Non come un agiografo bizantino, poiché c’è ben poco dello spirito di quell’arte nella produzione dei facsimili diventati di moda, delle copie che riempiono le botteghe della cosiddetta arte sacra, ma come un vero pittore cristiano.

Come un pittore, cioè, che ha fissato lo sguardo sulle cose di Dio, sulle storie di Dio, sulle storie degli uomini di Dio, sulle aggressioni della Nequizia e sulle battaglie del Bene e tutte le cose vede ormai nell’unica Luce, e ce le racconta come le racconta la Bibbia, dove le ha riscoperte e imparate. Non guardando e rifacendo le forme delle sue icone ma perdendosi nello spirito che le informava, facendosi obbediente alla “necessità” che le detta, che non è quella di uno “stile”, ma di una condizione dell’anima; e grazie a questa obbedienza è diventato pittore “biblico”, pittore cristiano. Davide non copia le icone, perché le ha capite troppo bene. Possiamo riconoscere dei ritmi, dei movimenti, dei rapporti, trovare dalle rispondenze, dei riferimenti, delle indicazioni succinte come le annotazioni di un coreografo che organizza una danza, ricordandoci l’essenziale musicalità delle icone. Ne riconosceremo il rigore iconografico nella disposizione e nelle attitudini delle figure, quando disposizioni e attitudini sono essenziali ai significati; ritroveremo il compendio parsimonioso dei racconti. Ma sotto l’estrema semplificazione compositiva, sotto l’esatta fedeltà delle citazioni, sotto qualche apparente conformità che pare estinguere l’antica irruenza del mio vichingo, astringerne la fantasia, quella irruenza rimane; anche se come domata, la fantasia è tutta libera, la passione evidente; la pietà, la rivolta, la compassione e la rabbia, la denuncia, la tenerezza e il perdono cantano insieme un grande canto di Amore.

Natale, smalti su tela, 140×200 cm, 1996

Crocifissione, smalti e olio su cartone, 72,5×90 cm, 2003

Ho negli occhi una Annunciazione dove le lievi vibrazioni di luce, l’incanto silente delle parole di Luca traspaiono quasi immateriali dalla tela, come venendoci dall’Altrove. Penso all’angoscia così umana del Signore che si stringe le braccia infreddolito dalla paura nella notte senza amici del Getzemani. Al Suo corpo sfinito deposto sulla terra che Gli ha bevuto tutto il sangue. Alla Puerpera Santa distesa (proprio come nei bizantini) in un rosso che è regale e sanguinoso insieme. Penso a quella Pesca sul Lago dove le onde scintillano nel vento sotto un cielo festoso e mattutino come su un mare greco di Sicilia. Penso ai profeti incendiati e drammatici, agli angeli folgoranti o quasi invisibili, agli Ospiti misteriosi sotto la tenda di Abramo, alle uccisioni, alle nozze, agli amori che ci racconta la Bibbia e che Orler dipinge. Opere che meriteranno comunque una congrua presentazione, poiché io credo davvero che questo pittore singolare debba essere proposto a quanti cercando con cuore sincero il senso e il mistero dell’arte, alla Chiesa oggi tanto confusa fra la legittimità del contemporaneo e il fascino del passato, perché il contemporaneo non sia come è spesso la deludente testimonianza di un vuoto e la lezione del passato non si riduca a una riesumazione senza vita.
E tra le pitture penso alla immediatezza con cui ci si impongono le immagini, alla fedeltà dei racconti, al variare dei colori, a certi turbinii di venti e di fuochi, di castighi e di assunzioni, alle tempeste notturne, alle quieti pastorali, agli abbracci gagliardi, alla pietà dei soccorsi, a Mosè che apre come un vento le acque, agli sgangherati pinnacoli di Babele, alla inesorabilità delle piaghe divine, alla felicità della gloria, a questa vera Bibbia dei poveri che Davide ha redatto per noi, a queste pagine dell’alfabeto di Dio che invita a leggere e a imparare, noi ormai analfabeti e smemorati delle Sante Parole.

* Il testo è tratto da AA. VV. Davide Orler 1949-2000, Terra Ferma srl, Cornuda (TV), 2003, pp. 119-140, catalogo della mostra tenutasi a Palazzo Bonaguro di Bassano del Grappa (Vicenza).

Immagine di testata: Resurrezione, smalti su tela, 120×200 cm, 1996

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