Il percorso artistico

Archivio Davide Orler

La retrospettiva Davide Orler 1949-2000, svoltasi nel 2003 a Palazzo Bonaguro di Bassano del Grappa (Vicenza), ha offerto alla professoressa Marilena Pasquali, curatrice dell’esposizione, di fare il punto sul peculiare e ricchissimo percorso artistico compiuto da Orler nell’intero arco della sua vita. Ne è scaturito un contributo ricco di spunti e sollecitazioni, fecondo di riferimenti e richiami, che, pubblicato nel catalogo, offre l’opportunità di addentrarsi nell’esperienza dell’artista cogliendone le molteplici sfaccettature. Il testo è proposto di seguito, come opportunità di conoscenza e di ulteriori approfondimenti.
di Marilena Pasquali*

Di fronte ai dipinti di Davide Orler, artista particolarissimo che ha speso la vita a tentar di disciplinare il furor pittoricus che lo scuote e lo governa, la prima impressione che se ne riceve è quella di una forza grande, indomita appunto, gonfia di rumori, grida, sogni, tenerezze, persino fragilità. L’equilibrio fra le molteplici spinte del cuore e della mente – e, perché no, di un istinto che chiede, per esprimersi, colore, spazio, materia, immagine – non è mai facile e l’artista si dibatte fra le Scilla e Cariddi del bisogno di raccontare e di raccontarsi, da un lato, e la necessità d’imbrigliare, levigare, ripulire tutto ciò che chiede con tanta insistenza e quasi imperiosità di venire alla luce. Dall’ormai lontano 1949 – anno delle sue prime opere consapevoli – fino ad oggi il percorso non è stato né breve né facile e ha comportato picchi e cadute, fasi ardue di ricerca anche insoddisfatta e momenti di grazia, immersi nella luce leggera del sogno (certi grovigli di tetti ammorbiditi dalla neve e cullati dalla luna; certe visioni di mare in cui anche i mostri del profondo giocano con le onde; certe figure della tradizione biblica, evanescenti e solidissime, tra le cui braccia, finalmente, si acquieta la sua inappagata sete di vita…). Questa può essere la sede migliore per una riflessione complessiva sul suo lavoro, ripercorrendone le tappe e cercando di trovare i capi di quella matassa aggrovigliata che è la sua immagine, luogo d’incontro e a volte di scontro tra stimoli, intuizioni, bisogni anche assai diversi l’uno dall’altro. Per farlo, non resta che cominciare dall’inizio.

Ragazza – Donna in giardino, collage su carta, 29,5×21 cm, 1956

Paesaggio Invernale a Mezzano, Olio su Tela, 100 x 100 cm, 1960
– retro dell’opera dell’amico Tancredi Parmeggiani

E l’inizio è quello di un ragazzone di montagna che ama di un amore profondo e solidissimo la sua terra e la sua gente, ma sogna il mare, il distendersi degli orizzonti, la luce che si confonde con l’acqua, il non sapere che cosa porterà, né dove porterà il vento. Ecco il primo, fondamentale nodo di un indole ricca di contraddizioni e di stupori, di un figlio della montagna che non vuole arruolarsi negli Alpini e va volontario per nove anni in Marina, avido del mondo che gli si spalanca davanti e contento del suo lavoro, che è quello di ripulire il mare tutt’intorno alle coste italiane da quelle trappole spietate che sono le mine seminate dalla guerra. L’altro suo grande amore è Venezia, la città-miraggio che lo attira fatalmente con il baluginare dorato dei suoi mosaici e l’ombra ammiccante dei suoi angoli più segreti. A Venezia inizierà a studiare pittura (ma in realtà, come egli stesso sinteticamente osserva, “la Marina è stata la mia Accademia di Belle Arti”) e soprattutto moltiplicherà incontri e scoperte nel mondo dell’arte insieme all’amico di sempre, Riccardo Schweizer, come lui giunto alla Laguna dalle montagne del Trentino: da Felice Carena – per lui quasi un maestro per diversi anni – a Bruno Saetti, con cui certamente il giovane ama discorrere di orizzonti aperti e di soli immensi; da quell’Egidio Costantini, che “inventa” la magnifica avventura della “Fucina degli Angeli”, ai pittori compagni di lavoro e scoperte negli studi di Palazzo Carminati, Gianquinto, Licata, Borsato, Barbaro; da Carlo Scarpa, che gli compra alcune ceramiche prima che Orler stesso decida di distruggere tutte le altre buttandole in mare, a Tancredi che lo introduce persino nell’ambiente esclusivo e raffinatamente crudele di Peggy Guggenheim.

Il lavoro pittorico dei dieci anni che corrono tra il 1949 e il 1959-60 è vario e in continua evoluzione, tanto che non è agevole tentar di porre ordine in una materia centrifuga e magmatica, che pare ora sfuggire ad ogni presa e ora rapprendersi alle dita che cercano di afferrarla per magari poi liberarsene (ma non è facile neppure distogliersi dall’immagine così personale di Orler). Dopo le prime carte con abbozzi di ritratto – a sé e a chi gli sta intorno – che risentono della koiné post-cubista, e dopo i primi Paesaggi in cui già il mare ruba il palcoscenico agli scorci di montagna – paesaggi assorti in una immota luce meridiana che pare immergere il giovane e la sua immagine appena nata nei silenzi risonanti e nelle vertigini ipnotiche del mito mediterraneo –; dopo questi approcci, nel 1954 nasce una nutrita serie di dipinti, certamente legati al modello picassiano allora imperante ma che rivelano immediatamente una personalità spiccata, anche se ancora in formazione. Sono le figure contorte, brulicanti, fortemente espressive che popolano le Tempeste, i Porti e le Guerre che il giovane artista va dipingendo ai bordi dei dragamine sui quali presta servizio. In esse regnano movimento e colore, mentre le forme paiono spezzarsi e ricomporsi senza sosta in una ridda frenetica che è dramma e favola a un tempo, perché registra e assimila ogni pericolo, ogni minaccia all’uomo e alla natura ma li trasporta in una dimensione atemporale e di edenica innocenza, come se a guardare dolore e sofferenza fossero gli occhi intatti di un bambino (…).

Fiori – conchiglia – teschio, olio su tela, 45×75 cm, 1968

Il 1956 è l’anno della quasi smisurata, onnivora visione di Mezzano, dipinta da un Orler in crisi di nostalgia su sette metri e più di tela di amache della Marina, da lui stesso assemblate e cucite per divenir luogo del suo più importante omaggio al lontano paese natale; ed è anche l’anno di altri tre importanti paesaggi “rotondi” di Mezzano, ove tutto è vorticar di forme, tetti e alberi che si arricciano in uno scenario che ricorda quello esotico e insieme familiare di una fiaba russa dell’Ottocento. Ma negli stessi mesi nasce anche una serie di sorprendenti collages, si dice realizzati da Orler in un letto di ospedale dove non può dipingere ma non può neppure resistere al suo continuo, debordante bisogno di pittura. Servendosi di ritagli di giornale e di altri frammenti di carte colorate, il giovane dà vita in tal modo a una ventina di immagini che restano ancor oggi tra le sue cose migliori, fresche, immediate, stimolanti.

E’ forse il momento in cui egli è più vicino, anzi è dentro la poetica picassiana, senza sforzo, spontaneamente, per via di assimilazione diretta di un linguaggio e per via di forti analogie di indole e di carattere. Non sono tanto, dunque, le grandi figure, a loro modo più pretenziose, più costruite, che egli va esponendo nelle prime sue apparizioni pubbliche, a dirci dell’Orler “impegnato” in una ricerca di “avanguardia” nei due anni tra il 1956 e il 1958 (egli stesso nell’estate del 1958 deciderà di abbandonare questa strada, distruggendo molte opere, per tornare alla sua vena più autentica e personale), quanto questi fogli piccoli ormai un po’ ingialliti e pur vivissimi che affermano con piena evidenza la natura di sperimentatore di Orler, la sua mai soddisfatta curiosità visiva, il suo essere uomo del presente, e che anticipano le successive serie di collages e assemblaggi di materiali vari che egli tenterà più volte, con alterne sorti, nel corso della sua storia d’artista.

Cristo, smalti su cartone, 48×35 cm, 1995

Il 1958, come si diceva, è l’anno della piena consapevolezza. Orler ormai ha lasciato il mare (che pure gli resterà sempre nel cuore e negli occhi) e si è stabilito a Venezia. Iniziano le prime mostre: in città alla Bevilacqua La Masa e alla Galleria San Vidal, e fuori, a San Martino di Castrozza e, soprattutto, al Museo Picasso di Antibes, invitato insieme a Schweizer dal conservatore Dor de La Souchère che, parlando della sua “naiveté”, la paragona a quella raffinata e coltissima del Cocteau della Chapelle des Pecheurs a Villefranche-sur-mer in Costa Azzurra: “…Io vedrei molto meglio le cappelle della sua terra decorate da questo vero “primitivo” piuttosto che le nostre decorate da Cocteau!”. L’occasione è d’oro, ma Orler, certamente più interessato a far pittura che a coltivare conoscenze e rapporti, non sa sfruttarla appieno e anzi lascia che gli si appiccichi addosso l’etichetta comunque pericolosa di “naif”. Forte dell’apprezzamento di quanti stanno imparando a conoscere la sua pittura, egli riprende a dipingere con rinnovata lena e realizza opere in cui pare dilatarsi una sorta di “realismo magico”. Mi si passi la definizione, qui usata non nel suo senso storico di pittura di ascendenza metafisica diffusa in Italia e in Germania fra le due guerre, ma a livello di pura sensibilità, come concetto di riferimento valido, mi auguro, a far meglio comprendere la stranita, stupefatta magia di certi Paesaggi di neve e Notturni di Orler, in bilico fra una minuta, lenticolare descrizione della vita di paese e la sua visione sintetica come luogo del sogno e dell’incanto. L’osservazione del reale diviene contemplazione, quella “crudezza spesso evidente” che qualche critico gli aveva rimproverato si trasforma in intensità della visione, in partecipazione sentimentale, in pura emozione estetica da cui non va disgiunto un profondo senso religioso della natura, il senso panico dell’anima del mondo.

* Il testo è tratto da AA. VV. Davide Orler 1949-2000, Terra Ferma srl, Cornuda (TV), 2003, pp. 119-140, catalogo della mostra tenutasi a Palazzo Bonaguro di Bassano del Grappa (Vicenza).

Maternità, smalti e olio su moquette,
94 x 84cm, 2004

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